Filosofie dell'età moderna, le grandi vite dei "lustrascarpe della posterità"


La recensione
Esce per Einaudi il saggio di Giuseppe D’Anna e Gianluca Garelli opera a più voci che introduce alle vicende della modernità filosofica europea
«I filosofi (i cosiddetti re del mondo) sono in verità soltanto i lustrascarpe della posterità», afferma, con asprigna acuzie, Georg Lichtenberg in uno dei suoi aforismi, forse avendo di mira la Historia critica philosophiae di Jacob Brucker, uscita in quel medesimo 1742 nel quale egli era venuto al mondo, e che aveva presentato la storia della filosofia come progressiva affermazione delle conquiste della ragione. Una prosopografia dalla duratura fortuna, che, diversamente dalle lezioni hegeliane sulla storia della filosofia, ritenne che questa dovesse essere sempre improntata, nella sua forma e nel suo contenuto «dalla personalità e dal carattere dell’individuo».
Si sarebbe tentati di ravvisare un sainte-beuvismo ante litteram, in questa scelta di spiegare un pensiero, considerando anzitutto la vita del suo autore. Decisione che quando non sia surrettizia o truccata, appare tutt’altro che riprovevole e tanto meno inconsueta, se solo si pensa alla civiltà letteraria greca e latina, dove ogni biografia conteneva una certa concezione della filosofia; ma soprattutto scientificamente legittima; anzi commendevole. Un tale metodo d’indagine permetterebbe infatti tanto d’evitare la doppia ignominia d’una sterile erudizione e d’una falsa familiarità, quanto di restituire ad un autore – si dirà con Gilles Deleuze – «un po’ di quella gioia, di quella forza, di quella vita politica e di amore che lui ha saputo donare, inventare». Benché non sempre possibile, la biografia filosofica, nel suo mirare a facilitare la comprensione di una certa persona in quanto filosofo, sarebbe insomma «una buona cosa» – com’ebbe ad affermare, con sinteticità anglosassone, James Conant, ragionando lustri fa dei rapporti fra filosofia e biografia, e come ora conferma il volume, a cura di Giuseppe D’Anna e Gianluca Garelli, “Filosofie dell’età moderna”, appena pubblicato da Einaudi. Opera a più voci che introduce alle vicende della modernità filosofica europea, prendendo le mosse dalle istanze che ne ispirano le origini umanistico-rinascimentali, per concludersi con una disamina delle tendenze speculative che animarono l’“età di Goethe”, attraverso una distesa illustrazione degli autori e dei concetti più rilevanti, senza omettere di presentare e postillare, di ciascun filosofo, i testi più significativi. Sì che il lettore si trova ad essere coadiuvato, nel suo studio, dal «candore prospettico del commento»: da uno splanamento giudizioso, che non cede mai alle didascaliche semplificazioni dell’assistenzialismo pedagogico, da cui si smarca anche con la determinazione di spazi tanto sobri quanto essenziali di riflessione teoretica.
Tali si mostrano i profili biografici che suggellano ciascuna delle tre parti di cui si compone l’opera, e che non soltanto sembrano coincidere per più versi con un récit, nel solco d’una tradizione che muove da Diogene Laerzio e prosegue fino a Pierre Michon, ma pure, riversando l’opera ed il pensiero di un autore sulla vita, consentono di recuperare al termine “bio-grafia” un senso, conforme alla sua etimologia, che fa sì che l’Io si scopra essere soltanto un “Io di carta”. Dal momento che la “soggettività”, quale assisa dell’Età Moderna, si trova coinvolta in una serie di sopravvenienze, di accadimenti impreveduti che la conducono sempre più spesso altrove, nel «paese del mantello e dell’ombra»: decostruita, disunita, dirottata, senza sostegno, senz’appiglio. Una soggettività in congedo e in annuncio, nella quale si riflette il trascorrere dall’età classica, incline a preparare l’uomo a conoscere sé stesso, a quella moderna, preda della perturbante paura che l’uomo ispira al proprio Io.
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